La fuga del brigante Colafella
11-04-2023 11:15 - Notizie dal Parco
11 aprile 1859
Angelo Camillo Colafella fu un bandito e poi brigante di Sant’Eufemia a Maiella. Dal 1850 al 1860 fu braccato dalla polizia borbonica e dal 1860 al 1863, in qualità di brigante “guerriero di Francesco II” come si faceva chiamare, da quella italiana. Fu, con molta probabilità, figlio della miseria ma reagì ad essa con la violenza e questa lo condusse, più volte, in carcere. Nel 1854 e nel 1859 fu rinchiuso nel carcere di Caramanico ma grazie alla sua astuzia riuscì sempre a fuggire. Non era fatto per rimanere in cella e tornava sempre alla sua avventurosa, e miserabile, vita tra i monti della Maiella. Nel luglio del 1859, poco dopo la sua seconda fuga, si muoveva nella zona di Bolognano insieme all’amico Giustino di Biase facendo razzie in varie case del paese. La polizia e la guardia nazionale erano state allertate della loro presenza ma, per ora, non vi erano azioni repressive importanti. I tre, allora, continuarono ad imperversare lungo la valle fino a riuscire a derubare, nella notte tra il 1’ e 2’ luglio 1859, tre carrozze lungo la via denominata “consolare” (oggi, invece, Tiburtina Valeria) raccogliendo un nutrito bottino di soldi ed altri preziosi. Invano fu l’intervento delle guardie provenienti dalla vicina Turrivalignani. Colafella ed i suoi erano svaniti verso i monti della Maiella.
L’indomani, il giudice di San Valentino ordinò l’immediata cattura dei tre. Iniziarono le indagini e gli interrogatori. Spie e polizia si muovevano ovunque. La bassa valle dell’Orta doveva tornare ad essere tranquilla. Grazie a qualche soffiata si venne a sapere che due giovani sconosciuti si trovavano a casa di Amadio di Marco. Furono subito sorpresi ed arrestati il 4 agosto. Essi cercavano di fuggire dalla miseria attraverso la strada del furto, ma questa lì portò direttamente in prigione. Il processo, ora, doveva ancora concludersi e nessuno sapeva quanti anni avrebbero dovuto scontare. Colafella non accettava di essere chiuso in prigione. La libertà lo attendeva dietro quel muro. Un uomo pratico come lui sapeva trovare in ogni oggetto un mezzo da lavoro e, tramite un coltello da cucina ed un chiavistello della finestra del carcere, il giovane di Sant’Eufemia e l’amico Giustino iniziarono a muoversi verso quella libertà che li attendeva all’esterno. Avevano già forato il muro e mancava solo lo sfondamento del terrapieno esterno. Il capo urbano di San Valentino, però, fece un sopralluogo alle strutture carcerarie del paese. Si accorse immediatamente del tentativo di fuga e per evitare un nuovo tentativo di evasione, i due furono trasferiti a Chieti. Presso il carcere dell’Ospedale di San Francesco di Paola, nella città teatina, non ci sarebbero stati problemi. I due avrebbero atteso l’ormai vicina sentenza senza creare problemi.
La notte tra il 10 ed 11 aprile ecco che Colafella ebbe una nuova opportunità. Riuscì a procurarsi un sottile saliscendi di ferro e con esso allargò le sbarre della piccola feritoia presente sotto la finestra della sua stanza. La fuga fu inevitabile e rocambolesca. Angelo e Giustino riuscirono a riprendere la via della libertà. Quella notte le guardie rincorsero i due per tutti i vicoli di Chieti. Urla, schiamazzi, grida svegliarono la città avvolta nel silenzio del riposo. Gli zoccoli dei cavalli rimbombavano per le viuzze cittadine alterandosi agli spari dei carcerieri e della forza pubblica accorsa sul momento. I due fuggiaschi cercarono in ogni modo di nascondersi e non farsi prendere. Erano dinanzi ad un bivio: farsi catturare insieme oppure dividersi cercando di lasciar trovare l’agognata salvezza almeno ad uno di loro. Scelsero la seconda opzione. Giustino, però, fu ben presto accerchiato e catturato. Angelo, invece, raggiunse la zona ove sorge, attualmente, l’attuale bel vedere sulla Civitella, uno dei luoghi simbolo della città teatina. Oramai non aveva più scampo. Le guardie stavano per raggiungerlo mentre soldati a cavallo si avvicinavano di gran galoppo. Non aveva altra scelta. Doveva gettarsi nella scarpata sottostante, sfidando la sorte e con l’aiuto del buio. La scommessa gli riuscì. Gli inseguitori non poterono far altro che sparare a vuoto sul buio. Angelo, però, era scomparso ancora una volta e tutto integro tornò nella sua Sant’Eufemia a Maiella. Da lì poteva muoversi liberamente nella valle dell’Orta e tra le sue montagne, protetto da parenti ed amici. La sua vita non era cambiata. La libertà che tanto amava, però, non era altro che una prigionia all’interno della miseria. Costretto da questa, e forse dalla sua stessa indole, continuava a rubare ai ricchi per dare a sè stesso. Tra qualche mese, anche per scelte opportuniste, sarebbe diventato il Brigante fedele alla causa borbonica ma, ora, continuava a fare il bandito braccato proprio dai soldati del giovane re Francesco II.
a cura di Nunzio Mezzanotte “Briganti della Maiella, personaggi, luoghi e avventure”; Documenti tecnico – scientifici del PNM n.10
Iniziativa promossa con i volontari S.C.U. – Ilaria Di Prinzio, Valentina Di Prinzio, Sebastian Giovannucci
Angelo Camillo Colafella fu un bandito e poi brigante di Sant’Eufemia a Maiella. Dal 1850 al 1860 fu braccato dalla polizia borbonica e dal 1860 al 1863, in qualità di brigante “guerriero di Francesco II” come si faceva chiamare, da quella italiana. Fu, con molta probabilità, figlio della miseria ma reagì ad essa con la violenza e questa lo condusse, più volte, in carcere. Nel 1854 e nel 1859 fu rinchiuso nel carcere di Caramanico ma grazie alla sua astuzia riuscì sempre a fuggire. Non era fatto per rimanere in cella e tornava sempre alla sua avventurosa, e miserabile, vita tra i monti della Maiella. Nel luglio del 1859, poco dopo la sua seconda fuga, si muoveva nella zona di Bolognano insieme all’amico Giustino di Biase facendo razzie in varie case del paese. La polizia e la guardia nazionale erano state allertate della loro presenza ma, per ora, non vi erano azioni repressive importanti. I tre, allora, continuarono ad imperversare lungo la valle fino a riuscire a derubare, nella notte tra il 1’ e 2’ luglio 1859, tre carrozze lungo la via denominata “consolare” (oggi, invece, Tiburtina Valeria) raccogliendo un nutrito bottino di soldi ed altri preziosi. Invano fu l’intervento delle guardie provenienti dalla vicina Turrivalignani. Colafella ed i suoi erano svaniti verso i monti della Maiella.
L’indomani, il giudice di San Valentino ordinò l’immediata cattura dei tre. Iniziarono le indagini e gli interrogatori. Spie e polizia si muovevano ovunque. La bassa valle dell’Orta doveva tornare ad essere tranquilla. Grazie a qualche soffiata si venne a sapere che due giovani sconosciuti si trovavano a casa di Amadio di Marco. Furono subito sorpresi ed arrestati il 4 agosto. Essi cercavano di fuggire dalla miseria attraverso la strada del furto, ma questa lì portò direttamente in prigione. Il processo, ora, doveva ancora concludersi e nessuno sapeva quanti anni avrebbero dovuto scontare. Colafella non accettava di essere chiuso in prigione. La libertà lo attendeva dietro quel muro. Un uomo pratico come lui sapeva trovare in ogni oggetto un mezzo da lavoro e, tramite un coltello da cucina ed un chiavistello della finestra del carcere, il giovane di Sant’Eufemia e l’amico Giustino iniziarono a muoversi verso quella libertà che li attendeva all’esterno. Avevano già forato il muro e mancava solo lo sfondamento del terrapieno esterno. Il capo urbano di San Valentino, però, fece un sopralluogo alle strutture carcerarie del paese. Si accorse immediatamente del tentativo di fuga e per evitare un nuovo tentativo di evasione, i due furono trasferiti a Chieti. Presso il carcere dell’Ospedale di San Francesco di Paola, nella città teatina, non ci sarebbero stati problemi. I due avrebbero atteso l’ormai vicina sentenza senza creare problemi.
La notte tra il 10 ed 11 aprile ecco che Colafella ebbe una nuova opportunità. Riuscì a procurarsi un sottile saliscendi di ferro e con esso allargò le sbarre della piccola feritoia presente sotto la finestra della sua stanza. La fuga fu inevitabile e rocambolesca. Angelo e Giustino riuscirono a riprendere la via della libertà. Quella notte le guardie rincorsero i due per tutti i vicoli di Chieti. Urla, schiamazzi, grida svegliarono la città avvolta nel silenzio del riposo. Gli zoccoli dei cavalli rimbombavano per le viuzze cittadine alterandosi agli spari dei carcerieri e della forza pubblica accorsa sul momento. I due fuggiaschi cercarono in ogni modo di nascondersi e non farsi prendere. Erano dinanzi ad un bivio: farsi catturare insieme oppure dividersi cercando di lasciar trovare l’agognata salvezza almeno ad uno di loro. Scelsero la seconda opzione. Giustino, però, fu ben presto accerchiato e catturato. Angelo, invece, raggiunse la zona ove sorge, attualmente, l’attuale bel vedere sulla Civitella, uno dei luoghi simbolo della città teatina. Oramai non aveva più scampo. Le guardie stavano per raggiungerlo mentre soldati a cavallo si avvicinavano di gran galoppo. Non aveva altra scelta. Doveva gettarsi nella scarpata sottostante, sfidando la sorte e con l’aiuto del buio. La scommessa gli riuscì. Gli inseguitori non poterono far altro che sparare a vuoto sul buio. Angelo, però, era scomparso ancora una volta e tutto integro tornò nella sua Sant’Eufemia a Maiella. Da lì poteva muoversi liberamente nella valle dell’Orta e tra le sue montagne, protetto da parenti ed amici. La sua vita non era cambiata. La libertà che tanto amava, però, non era altro che una prigionia all’interno della miseria. Costretto da questa, e forse dalla sua stessa indole, continuava a rubare ai ricchi per dare a sè stesso. Tra qualche mese, anche per scelte opportuniste, sarebbe diventato il Brigante fedele alla causa borbonica ma, ora, continuava a fare il bandito braccato proprio dai soldati del giovane re Francesco II.
a cura di Nunzio Mezzanotte “Briganti della Maiella, personaggi, luoghi e avventure”; Documenti tecnico – scientifici del PNM n.10
Iniziativa promossa con i volontari S.C.U. – Ilaria Di Prinzio, Valentina Di Prinzio, Sebastian Giovannucci
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